Storie di fuga






A cura di: Ikhlas Joual Alaoui e Priscilla Lopez

 La storia di Modu

Modu è un giovane ragazzo di 18 anni, arrivato al centro di accoglienza di Ponte Felcinopoco tempo fa. È arrivato a Lampedusa il 18 settembre 2015, dopo un difficile viaggio in mare verso l’Italia. Ha tutti i sogni, le speranze e l’allegria di un giovane come tanti, nonostante il suo racconto abbia l’odore della polvere da sparo e della guerra. È una tranquilla giornata di settembre, quando ci sediamo al tavolo della sala da pranzo dell’Ostello della Gioventù. Modu scappa dalla dittatura in Gambia e dalla guerra in Libia: Sono appena arrivato in Italiail viaggio è stato duro e sono quasi morto in quanto in Libia mi hanno colpito con un’arma in testa. Non c’è legge, e c’è molta violenza soprattutto nei confronti dei neri. I libici ti prendono per fare dei lavori ma alla fine non ti pagano, e se ti ribelli, ti puntano un’arma e ti minacciano. Così alla fine, sei costretto ad aver lavorato gratis.

 Ho lasciato il mio paese, il Gambia, per andare a lavorare in Libia, in seguito ad un contatto con un mio conoscente che mi rassicurò che la guerra era circoscritta solo in un’area, altre zone invece erano sicure. In Libia c’è molto lavoro, soprattutto nel campo edilizio, ma quando sono arrivato lì, mi sono accorto che non era vero, la situazione di disordine era ovunque, e quando ho capito che era insostenibile e pericolo rimanere, ho deciso di proseguire verso l’Italia. 

Tornare nel mio paese, tra l’altro, avrebbe comportato un viaggio impossibile. Tramite altri migranti africani, ho trovato contatti per fare il viaggio verso l'Europa, anche se non ho mai incontrato personalmente la persona a cui ho dato i soldi per venire qui. Quando ti conducono verso le zone costiere per imbarcarti, non ti fanno neanche capire dove andrai veramente ma scappare dalla Libia mi sembrava l’unica soluzione possibile. La polizia inoltre ti incarcera appena capisce che sei un immigrante clandestino.

 In Libia dormi con le scarpe, possono fare irruzione da un momento all’altro e devi essere pronto a scappare. Siamo arrivati a Lampedusa dopo un giorno in mare con il gommone. I miei genitori sono rimasti in Gambia, anche se la situazione nel mio paese è molto complessa. Avevo anche degli amici che facevano parte di una associazione omosessuale; in Gambia essere gay o avere amici omosessuali significa essere condannati in quanto è considerato reato e alcuni di loro sono in prigione. Non c’è lavoro e c’è molta povertà nel mio paese, ecco perché ho tentato di andare in Libia in cerca di occupazione.
 In Gambia vige da oltre venticinque anni la dittatura, è proibita qualsiasi forma di opposizione ed è tutto in mano al dittatore, così, ogni possibilità di crescita economica o di diritti umani, viene negata. Sono venuto qui per cercare un futuro, una vita migliore e più pacifica. La crisi in Europa? La crisi è nel mondo, ma ci sono paesi in cui si vive meglio, rispetto ad altri. Vorrei solo poter lavorare, aiutare la mia famiglia e magari, continuare a studiare. In Gambia ho lasciato la scuola per far studiare mia sorella, mia madre non poteva permettersi di farci studiare entrambi. Sono arrivato da appena due giorni, è vero, ma qui a Ponte Felcino si prendono cura di me e la guerra, gli spari, la violenza, mi sembra che appartengano ad un’altra vita, ormai”.





La storia di Mbaye

Mbaye, 24 anni, originario del Senegal è seduto insieme a noi sul tavolo della sala da pranzo. Ha conosciuto Modu in viaggio, su quel gommone della speranza che li ha fatti arrivare in Italia. “Il mio viaggio è iniziato su un autobus, dal Gambia passando attraverso il Mali per arrivare in Niger; è da lì che si parte per attraversare il deserto del Sahara. Io vengo dall’area del Senegal in cui in passato c’è stata la ribellione dei Casamance, in cui ha perso la vita mio nonno, e sono andato in Gambia dove ho imparato il mestiere dell’elettricista. Sono stato un mese in Libia per lavoro, la situazione in Gambia era molto complessa dal punto di vista lavorativo. Ma poi mi sono accorto che in Libia la guerra era ovunque, e che il lavoro non veniva pagato. Sono partito quindi in gommone, il mezzo che costava meno, verso l’Europa, lontano dalla guerra. Ricordo che durante la notte, in mezzo al mare, alcuni grossi pesci, forse delfini, saltavano vicino al gommone, avevamo paura che se si fossero avvicinati troppo, saremmo affogati, basta poco a bucare un mezzo del genere. Il viaggio l’ho pagato 1000 danari libici, ma ovviamente non sappiamo mai a chi arrivano i nostri soldi, non vedi neanche il padrone della barca. Ci sono agenti, ‘brokers’ africani, che procacciano i clienti prendendo una percentuale sul viaggio, la maggior parte dei soldi li danno a chi è a capo dell’organizzazione. Durante il viaggio ci dissero che potevamo portare solo un po’ d’acqua per uno, niente cibo. E molta gente in viaggio con me si è sentita male ma non c’era nessuno che potesse né soccorrerli, né aiutarli. Sono fuggito dal mio paese per crearmi un futuro; mia madre è morta, mio padre ci ha lasciato da piccoli, ed ho solo uno zio in Senegal. I miei sogni? Condurre una vita pacifica, poter lavorare, ed avere una vita dignitosa, non chiedo altro”.



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